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lunedì 1 giugno 2015

Fame dell'Altro, fame dell'Oltre. A "Mangiocando"


MANGIOCANDO
cibo, cultura, età della vita
28 maggio 2015

Leonardo Lenzi
Fame dell’Altro, fame dell’Oltre
Nutrirsi come questione antropologica e teologica


                Vorrei iniziare il mio intervento con qualcosa che forse potrebbe risultare disturbante. Ciò che dirò ha a che fare con la fame, una parola che in questa parte del mondo giunge addomesticata, tranquilla. Come nota lo scrittore argentino Martìn Caparròs (Caparròs M, La fame, Einaudi 2015), in questa parte del pianeta abbiamo fame due o tre volte al giorno e, quando la avvertiamo, la salutiamo allegramente, non essendo per niente difficile tacitarla: anzi, è piacevole, è divertente farlo.




Salvo rarissime eccezioni siamo tutti nelle condizioni della giallovestita signora della pubblicità dei cioccolatini, madre di tutti i doppi sensi pubblicitari: non è proprio fame, è un languorino, una voglia di qualcosa di buono, e con maggiore o minore prontezza c’è sempre un Ambrogio a offrirci la possibilità della soddisfazione di questa voglia. Attraversando Milano in questi giorni di Expo non si è quasi in tempo di provarlo, il languorino, tanto il cibo in ogni forma è onnipresente, ed entra anche dagli occhi sotto forma di immagini, di suoni. Si rischia di fare indigestione anche solo passeggiando per la città. Non solo: basta aprire Facebook per vedere centinaia di prelibatezze fotografate, perché ormai il cibo prima di mangiarlo si fotografa e si condivide. Si condivide: ma in foto.



Ma –scrive Caparròs – tra la fame ripetuta, quotidiana, saziata ripetutamente e quotidianamente che viviamo noi, e la fame (“el hambre”) disperante di chi non può soddisfarla, c’è tutto un mondo. Non è che non sappiamo che ogni giorno, ogni giro del pianeta sul proprio asse, ogni 24 ore oltre 25000 persone muoiono per ragioni connesse alla fame. Tragicamente e brutalmente Caparròs si chiede: ¿Cómo carajo conseguimos vivir sabiendo que pasan estas cosas?

Possiamo: perché una cosa è sapere, un’altra è realizzare, come mi ha insegnato il mio maestro, Luigi Lombardi Vallauri. La differenza tra nozione e realizzazione sta nel fatto che ciò che realizziamo ci coinvolge esistenzialmente, ci fa trasalire: Oddio, le cose stanno proprio così! Per esempio noi sappiamo che moriremo ma, magari solo una volta nella vita, con una palpitazione dell’anima realizziamo che veramente moriremo. E’ stato detto che in principio era il pasto. Forse. In principio c’è anche il fuoco, c’è la morte (e il culto dei morti). Ma direi che in principio era l’angoscia, e quel fortissimo dolcissimo nostro nonno appena affrancatosi dai primati, con la stazione incertamente eretta e il pollice che si opponeva abbastanza, quel nonno per cui io prego ogni sera, quel vero Adamo che ha guardato le stelle e con una strana sensazione allo stomaco ( ! ) scopre di essere soggetto separato dal mondo, e s’impaura. La prima, grande realizzazione. Poi, magari fortunatamente, la realizzazione scompare e la morte torna a essere semplicemente una nozione, anche piuttosto banale: Tutti gli uomini sono mortali, Leo è un uomo, dunque Leo è mortale, ciò che gli studiosi di filosofia definirebbero un sillogismo di prima figura in barbara, quanto di esistenzialmente più innocuo si possa concepire. Per propiziare una realizzazione, cioè un sapere intensivo e esistenzialmente coinvolgente, che faccia da sfondo a quanto sto per dire, mi sono procurato un metronomo. Non essendo riuscito a trovare un metronomo vero, ho scaricato un’applicazione per il mio smartphone. Ho impostato il metronomo sul ritmo di 17 battute al minuto: ogni battuta corrisponde a un essere umano, una donna, un uomo, una bimba, un bimbo, che in quel medesimo istante muore di fame. Perché, se fate i conti, è proprio così: ogni minuto ne muoiono 17. Ecco, ora lo attivo. […]

Mentre discutevo questa idea con altre persone, emergevano due diverse possibili reazioni. La prima era il fastidio, la difficoltà o l’impossibilità di seguire il contenuto di un discorso con questo sottofondo. La seconda era l’abitudine: dopo un po’ potrei scoprire di non sentire più il ticchettio, il mio cervello lo rimuove, lo annulla. Ebbene, queste sono esattamente le reazioni che emergono quando si presenta alla nostra coscienza un contenuto impresentabile e drammatico come el hambre: lo rimuoviamo o ne siamo sopraffatti. Forse avrei potuto soltanto chiedervi di chiudere gli occhi e fare consapevolezza per 45 minuti di questo larghetto di morte, osservando ciò che vi accade dentro. Il mio spazio si sarebbe trasformato in una performance realizzativa. Ora, mi sarebbe piaciuto, ma temo sia un’eccentricità alla John Cage che non posso permettermi, o forse sono solo troppo poco self confident per provarci. Nulla vieta però a voi di sperimentarlo a casa, individualmente o in gruppo.

Abbiamo sempre mangiato: prima di parlare, prima di camminare, prima di vedere. Da neonati il seno materno era dio. Non lo dico metaforicamente, ma letteralmente: era dio. Morbido, caldo, accogliente, e soprattutto nutriente. Era dio. Abbiamo vissuto in un eden, e – come ben sanno i nostri mitici progenitori – dall’eden si viene sfrattati presto (non a caso a causa dell’aver mangiato ciò che è vietato). Così siamo stati svezzati, s-viziati. Questo percorso di individuazione rispetto alla simbiosi edenico-alimentare con il seno materno è evidentemente delicato e drammatico: il seno materno ritorna nei nostri sogni, talora nei nostri incubi



Straordinario l’episodio del film di Woody Allen Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere (1971) in cui lui viene inseguito da una gigantesca tetta assassina che cerca di ucciderlo con spruzzi di latte, e davanti alla quale brandisce – a mo’ di esorcismo – il crocefisso). Il seno materno e il desiderio di ritornarvi e di abbandonarvisi ci sarà sempre: e fortunatamente Odisseo forza i compagni a sottrarsi dagli incantati lotofagi, dimentichi di tutto, perché rimanere renderebbe impossibile l’avventura umana. E un cherubino armato di una spada fiammeggiante ci vieta il ritorno al giardino di Eden.




Nella narrazione biblica lo s-viziamento arriva dopo pochissime pagine dall’inizio I progenitori potevano mangiare tutto eccetto del frutto del famoso albero del bene e del male, ma fuori dall’Eden il rapporto col cibo diventa complicato e sofferto, procurarselo significa estrarlo con dolore da un suolo maledetto.

Bisogna pur mangiare (Riva F, Filosofia del cibo, Castelvecchi 2015). Questo terribile dovere di procurarci il cibo, pena il cessare di esistere, questa necessità di estrarlo con dolore dal seno ora maledetto della terra è di una tragicità che raramente noi riusciamo a cogliere. Sono stato recentemente in Russia, e – poiché mi ero perduto nell’immensa Mosca – ho chiesto un’informazione stradale, trovando un signore che parlava inglese. Alla fine l’ho ringraziato, ma lui mi ha detto molto gentilmente: Five bucks, please. I’m sorry, but I don’t eat ‘thankyous’. Cinque dollari, o euro, non so: mi scusi, ma io non mangio “grazie”. Bisogna pur mangiare.

Le filosofie e le religioni hanno da sempre e acutamente avvertito il peso atroce di questa necessità, e hanno pensato, desiderato e sognato modi per affrancarsene. Gli angeli non mangiano. C’è una brutalità spaventosa insita in quest’atto universale. Tutta l’etichetta, il galateo, le buone maniere a tavola, tutto ciò nasce come un tentativo fallito in partenza di renderlo tollerabile. Non si tratta in prima battuta di una questione morale: certo, la gola viene condannata e stigmatizzata, ma si capisce che il fondamento di questa resistenza è ben più profondo. E’ che si percepiva l’orrore di questo ingerire, ingurgitare, masticare il mondo, triturare, gettare nelle nostre interiora altre forme, altre vite, talora senzienti.



Così Palomar, il protagonista osservatore malinconico di una serie di racconti di Italo Calvino (Calvino I, Palomar, Mondadori 1994), un giorno entra in una macelleria:

Dietro il banco, i macellai biancovestiti brandiscono le mannaie dalla lama trapezoidale, i coltellacci per affettare e quelli per scorticare, le seghe per troncare gli ossi, i batticarne con cui premono i serpeggianti riccioli rosa nell’imbuto della macchina trituratrice. Dai ganci pendono corpi squartati a ricordarti che ogni tuo boccone è parte di un essere alla cui completezza vivente è stato arbitrariamente strappato

Senza assolutamente entrare nella questione molto complessa e delicata (dal punto di vista etico e antropologico) relativa alla scelta fra alimentazione carnivora o vegetariana, è per me sufficiente soffermarmi sulla forma perfetta, integra, meravigliosa di una mela.




Se neppure una volta ci siamo soffermati con costernazione e anche con un sentimento quasi di inevitabile colpa prima di addentare una mela forse non potremo mai capire verso quale fondo oscuro, ferino e terribile ci possa condurre una riflessione sulla fame e sul cibo. L’essere vive a spese dell’essere in un ciclo di voracità che sembra non interrompersi mai. L’uomo è ciò che mangia e mangia ciò che è (er ist was er ißt und ißt was er ist) (Riva 2015)

Se questo è vero, si può dire però che l’uomo è anche – soprattutto – ciò che ‘non’ mangia (Niola M, Homo dieteticus. Viaggio nelle tribù alimentari, Bologna: Il Mulino, 2015; Riva 2015). L’uomo, è possibile sorprenderlo nell’atto dell’astenersi da certi cibi: si va dal tabu transculturale del cannibalismo (di cui il nostro profondo mantiene tracce evidenti: c’è chi dice che il bacio stesso, lungi dall’essere l’apostrofo rosa nell’espressione ‘T’amo’, come dicono il Cyrano di Rostand e milioni di baci perugina, sia nient’altro che la sublimazione di un originale cannibalismo; certo è che in alcuni sguardi soprattutto di zie davanti a paffuti pargoletti io ho visto più appetito che affetto; non solo negli sguardi, anche nelle parole: ti mangerei di baci) alle astensioni religiose, alla ahimsa indiana ed rappresentata nel suo estremo nel giainismo, dove gli asceti muoiono di inedia pur di non commettere violenza alcuna, alla kasherut ebraica, ai digiuni che fanno parte di ogni tradizione religiosa, inclusa quella ebraica, cristiana e islamica, alle sante anoressie, religiose e anche no (come l’anoressia sociopolitica di Simone Weil), alle diete contemporanee, problematiche – come si vedrà – e con possibili derive patologiche.

L’uomo è ciò che mangia / L’uomo è ciò che non mangia. Ancora una volta riflettere sul cibo rinnova la domanda che Israele si pone nel deserto, quando – evaporata la rugiada – trova sul terreno una sostanza sconosciuta e commestibile.



 Man hu? Che cos’è? (Es 16, 16-18) : Quando i figli di Israele la videro si dissero l’un l’altro: ‘Che cos’è’? perché non sapevano cosa fosse. E Mosè disse loro: ‘Questo è il pane che l’Eterno vi ha dato da mangiare. Che cos’è il cibo, ma anche che cos’è l’uomo, che di fronte al cibo si trova – come del resto di fronte a tutto – perplesso, invischiato in un dilemma : cos’è il cibo, come devo prenderlo, cosa sono io che lo mangio ? Infatti le prescrizioni alimentari relative alla manna hanno a che fare sia con la concessione gratuita e celeste del cibo (il pane che il Signore vi ha dato) che con la limitazione della voracità: gli Israeliti non possono prenderne se non in modo che non ne avanzi fino al mattino, altrimenti essa si riempie di vermi e imputridisce. E’ inevitabile che perfino questo, perfino il pane che ogni giorno miracolosamente Dio fa scendere nel deserto, non basti all’uomo. Che infatti presto mormora, protesta. I figli di Israele ripresero a piagnucolare e a dire: “Chi ci darà carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che in Egitto mangiavamo gratuitamente, dei cetrioli, dei meloni, dei porri, delle cipolle e degli agli. Ma ora l’intero essere nostro è inaridito; davanti ai nostri occhi non c’è nient’altro che questa manna (Num 11, 4b-6). La collera dell’Eterno divampa, schiacciando ancora una volta Mosè nel suo tragico ruolo di mediatore tra un Dio permaloso e collerico – che sembra ancora non aver preso le misure rispetto alla natura umana – e un popolo, il suo popolo, incredulo e di testa dura. E allora Dio dice: Volete mangiare carne? Frignate perché non avete carne? Ebbene ne avrete, e non per un giorno, non per una settimana, io vi darò così tanta carne che – letteralmente – vi uscirà dalle narici e vi verrà a noia. Ed è straordinario che a questo punto perfino Mosè dubita di questo Dio smargiasso, e lo mette in guardia: Questo popolo conta seicentomila adulti, la sua voracità è senza fine. Si possono uccidere greggi e armenti in modo che ne abbiano abbastanza? O si radunerà per loro tutto il pesce del mare in modo che ne abbiano abbastanza? Mosè intende dire che non ne avranno mai abbastanza. Ma il Signore fa salire un vento e getta sull’accampamento di Israele un’infinità di quaglie, tanto che è scritto che chi ne prese di meno ne ebbe quaranta chili. Ma il Dio con cui questa parte della Scrittura ha a che fare – lo abbiamo accennato – è un Dio ancora giovane, bellicoso, passionale e feroce. E infatti: Avevano ancora la carne fra i denti e non l’avevano ancora masticata, quando lo sdegno del Signore si accese contro il popolo e il Signore percosse il popolo con una grandissima piaga. Quel luogo fu chiamato Kibrot-Taava (sepolcri avidi), perché qui fu sepolta la gente che si era lasciata dominare dall’ingordigia. Che significa? La Bibbia è piena di queste stranezze, perché ad essere strano – come tante volte dice il Professor Petrosino che interverrà questo pomeriggio – è l’uomo stesso. Forse uno degli argomenti che provano l’origine divina della Scrittura è che solo il Creatore dell’uomo può conoscerlo così bene nella sua contraddittorietà. In questo caso sì, l’uomo ottiene quanto il suo godimento desidera, ma questo stesso godimento non si può neppure realizzare, esso muore con la carne tra i denti non ancora masticata.

L’uomo abita questa tensione, questa lacerazione tragica. E’ ciò che mangia, e contemporaneamente ciò che non mangia, quindi non si sa bene cosa sia. Ancora Palomar

Pur riconoscendo nella carcassa di bue penzolante la persona del proprio fratello squartato, nel taglio della lombata la ferita che mutila la propria carne, egli sa di essere carnivoro, condizionato dalla sua tradizione alimentare a cogliere da un negozio di macellaio la promessa della felicità gustativa, a immaginare osservando queste trance rosseggianti le zebrature che la fiamma lascerà sulle bistecche alla griglia e il piacere del dente nel recidere la fibra brunita.
Un sentimento non esclude l’altro: lo stato d’animo di Palomar che fa la fila nella macelleria è insieme di gioia trattenuta e di timore, di desiderio e di rispetto, di preoccupazione egoistica e di compassione universale, lo stato d’animo che forse altri esprimono nella preghiera.

Come si esce da questo dilemma? Occorre dire che filosofie e religioni non aiutano. Se prescrivono il digiuno, dall’altra parte il banchetto – anche sacrificale – è un modo, se non il modo, per entrare in comunicazione col divino. La via ascetica è raccomandata, ma sotto-sotto si capisce che c’è una via segreta, tantrica, prediletta, che invece ha a che fare con gli eccessi anche più terribili.



Il buddhismo comprende tutto: dal mangiar nulla – o quasi nulla – al mangiare il mondo, nutrirsi di tutto, di carne umana, di cadaveri, a dimostrazione che un’elevata condizione spirituale si fa beffe delle regole e divinamente le capovolge, fino ad usare lo stesso peccato come combustibile energetico verso l’illuminazione. Anche il cristianesimo conosce queste polarità, da una parte l’asceta digiunatore del deserto, o la mistica che si nutre solo di eucarestia, e dall’altra il dichiarare tutti i cibi puri e creare una vera cultura della buona tavola. In fondo questo risale alle origini. A chi paragonerò gli uomini di questa generazione? E a chi somigliano? Sono simili ai fanciulli nelle piazze e gridano gli uni agli altri, dicendo: ‘Noi vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, vi abbiamo cantato dei lamenti e non avete pianto’. E’ venuto infatti Giovanni Battista che non mangia pane né beve vino, e voi dite: ‘Egli ha un demone’- E’ venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e voi dite: ‘Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori’. E anche l’islam non è estraneo al dilemma: si pensi solo all’importanza del vino e dell’ebbrezza (rigorosamente vietate) nella via pazza d’amore del derviscio. Non che non ci siano santi e filosofi che raccomandino l’equilibrio, la moderazione, il compromesso: ma c’è qualcosa che ce li fa sentire un po’ fasulli. Un po’ come quella comunità nordica e protestante che accoglie la Babette di Karen Blixen, grande chef al Cafè Anglais fuggita da Parigi in incognito, che per sdebitarsi investe tutto il denaro di una vincita per preparare una cena incredibile a base di brodo di tarataruga, blinis Demidoff, e le inimitabili quaglie en sarcophage, quasi firma dell’artista. Il cibo sconvolge di piacere la vita moderata e sensata, il gusto li esalta, il vino li inebria, fino a che uno di essi dirà che in quella sera rettitudine e felicità si sono baciate.

Ho preparato questo intervento in un dialogo costante con un’amica, che è qui presente, la dottoressa Margherita Tassi. Margherita segue una disciplina spirituale che prevede molte astensioni, in particolare dalla carne, dall’alcool, dagli intossicanti. Contemporaneamente lei sente che è attraverso il corpo che è chiamata a incontrare il mondo e i suoi bassifondi, i suoi dolori. Allora non può negare che ci sia una contraddizione tra la logica immunitaria – che presiede alla sua via spirituale – e la logica comunitaria – che guida il suo agire quotidiano.

E dilemma si aggiunge a dilemma.



La blogger Flavia Gasperetti (Gasperetti F, “Una caponata ci seppellirà, ovvero come il food ha ucciso il cibo” in The Brain that Drained, flaviagasperetti.wordpress.com) elenca in modo molto divertente i teneri dubbi del foodie. La ricotta confezionata alla meglio da un vecchio pecoraio avvinazzato sotto la tangenziale o il ristorante tristellato? Il foie gras – che certo non è animalista ma vuoi mettere la grande tradizione che c’è dietro – o la cucina vegana e nonviolenta? Il kilometro zero o il commercio equo e solidale? La filiera trasparente o la conserva prodotta da mani mai sfiorate da un controllo qualità? Il Bio a tutti i costi o gli OGM che forse salverebbero dalla morte intere popolazioni?




E dilemma si aggiunge ancora a dilemma. Perché è giusto pensare a nutrirsi ‘bene’, a nutrirsi in modo ‘sano’. E’ giusto difendersi dall’obesità e dagli svantaggi clinici e sociali che da essa derivano. E’ giusto mettere in atto le cosiddette tecnologie del Sé (Niola 2015), tutte le competenze, esperienze, conoscenze, comportamenti tesi a prendersi cura del proprio corpo e che ci rendono sempre più sani, belli, attivi, giovani, longevi, potenzialmente immortale. E’ giusto dichiarare guerra ai radicali liberi. E’ giusto: anche se magari nel prossimo DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders),sarà inclusa, come patologia mentale, anche l’ortoressia (da orthos: corretto e orexis: appetito), ossia quell’ossessione per le regole alimentari, per la scelta dei cibi, per le loro caratteristiche. L’eccesso di salute produce malattia.



Come giustamente sottolinea Niola, la nostra sta diventando una alimentazione in levare. Senza uova, senza latte, senza sale, senza zucchero, senza grassi, senza colesterolo, senza carboidrati, senza lieviti. Hanno perfino agito sul sacro, facendo ostie gluten free.




 Hanno agito sull’arte, facendone una versione gluten free (non so se ironicamente: lo spero)



Ci si chiede in siti ufficiali (celiacdisease.about.com) se un celiaco o una celiaca possa baciare il partner se ha appena mangiato cibi contenenti glutine, se ha bevuto una birra, se usa dentifricio o collutorio che contengono glutine, se usa rossetti contenenti glutine. E – bontà sua – ricorda alle anime innocenti (sic) che questo non vale per il bacio sulla guancia dato alla nonna.



Se qualcuno è interessato a sapere cosa fare, ebbene occorre che il partner prima di baciarvi si lavi accuratamente il cavo orale con prodotti gluten free e che i suoi cosmetici (vale anche per il make-up) siano gluten free. Si raccomanda anche (giuro) di spazzolarsi accuratamente i baffi per evitare che alcune microbriciole siano rimaste attaccate. How romantic! Siamo al delirio immunitario, e lo dico da celiaco.

Perché il nostro nemico non è più la fame, ma l’abbondanza, col suo corteggio di sensi di colpa, di fobie, di allergie, di intolleranze.




La nostra vita sta diventando una cucina “senza”. Una continua sottrazione alimentare. L’opposto di quella dei nostri genitori, che era tutta un’addizione. La differenza è che loro avevano fame di vita, mentre noi della vita abbiamo paura. (Niola 2015)

Perché anche qualora tutto vada a posto con il nostro girovita, resta il problema della nostra vita. Dove sta andando?




Ora che all’occhiuto triangolo divino si è sostituita la piramide alimentare, ora che la nostra etica si trasforma in diet-etica (che non è affatto una daiet etica, un’etica leggera, anzi, è esigente, cupa, severa, spesso perfino tirannica), qual è lo scopo della nostra vita. E’ veramente la longevità? E’ veramente il benessere? Non ci viene il dubbio che l’uomo dia il meglio di sé proprio in un disequilibrio? Che le scintille di senso si sprigionino proprio quando esso è schiantato da Dio, dalla sorte, dal caso, insomma quando è spezzato sugli scogli appuntiti dell’esistenza? Van Gogh riempiva la cavità oscura del suo stomaco con pessimo liquore d’assenzio: e certo non osservava la dieta mediterranea. E’ morto a trentasette anni. Eppure il suo sguardo trasfigurava in bellezza suprema i cieli, i corvi, i campi di girasoli. Perché non è vero che prima di tutto viene la salute. Se volete fare un’esperienza interessante – io l’ho fatta – andate a sedervi una sera, dopo le 18, su una panchina della montagnetta di san Siro. Assisterete all’incredibile spettacolo dei runners, cioè di quelli che corrono, corrono, corrono. Vestono di colori smaglianti, fosforescenti, hanno cuffiette con musica che favorisce l’allenamento e fasce elastiche per gli smarthphone con l’applicazione che registra tutto, dal battito cardiaco alle calorie consumate. Prevalentemente sono uomini e donne dai quarant’anni in poi. I loro figli diciottenni – posto che non siano atleti semi-professionisti – non ci vanno mica, a correre. Se ne stanno spetasciati (come se non avessero ossa) sul divano a chattare su whatsapp e a ascoltare spotify. Ma dopo i quarant’anni ecco che si comincia a pre-sentire la fine, la morte. Allora si comincia a correre, perché la morte non ci prenda, e si guardano i tempi, si confrontano con quelli fatti l’anno prima, perché la morte è veloce e potrebbe raggiungerti. Un caro amico – che fa le maratone – mi diceva che nell’ultima decina di kilometri della gara quello che senti è che qualcosa, da dentro, ti sta mangiando. Che stai mangiando te stesso attraverso la fatica.

Che cos’è questa nostra vita? La domanda sul cibo (man hu? che cos’è?) esplodendo in innumerevoli domande che non possono avere risposta, ci ha ricondotto qui. Il mio intervento vorrebbe essere come una premessa a quello che sperò dirà il professor Petrosino, mostrandoci se e come è possibile rimanere umani dentro il collare tragico della fame e della necessità di mangiare, ed esplorando il salto di senso – già proposto da Emmanuel Levinas – tra bisogno e desiderio, ossia riconoscendo nell’urlare del bisogno il levarsi di un desiderio perfino più grande, un desiderio propriamente umano: cioè un desiderio infinito.

Quanto a me, vorrei tornare all’inizio, alla condizione terribile che – in questo istante – stiamo vivendo. A pochi metri da noi la celebrazione del cibo, del gusto, della vita, ma – nelle nostre orecchie – il ticchettare lugubre che scandisce il larghetto della morte per fame. Ascoltiamolo ancora per qualche secondo. […]




(Nel tempo di questo mio intervento sono morte di fame 756 persone, durante questo Convegno ne moriranno 7140, alla fine dell'Expo ne saranno morte 4.504.320)


lunedì 15 dicembre 2014

La giustizia come virtù - A Sotto il Monte, il 13 dicembre 2014

Aggiungere alla fede la virtù (2Pt 1,5)
Le quattro virtù umane principali o virtù cardinali
Incontri al Priorato di Sant’Egidio in Fontanella

Leonardo Lenzi
Giustizia
sabato 13 dicembre 2014
Se uno ama la giustizia,
le virtù sono il frutto delle sue fatiche.
(Sap 8,7)

            Prima di parlare della giustizia, consentitemi un breve elogio del sentimento di ingiustizia.

            Una pubblicità di Carosello, negli anni ’70, aveva come protagonista un pulcino piccolo e nero, con un mezzo guscio d’uovo come copricapo, che – a conclusione delle sue avventure – finiva sempre per esclamare: è un’ingustizia, però! (Nancy J.-L., Il giusto e l’ingiusto, 2007)

Calimero ebbe una grande popolarità, perché rispecchiava tutti i bambini (e forse non soltanto loro). Chi ha una minima familiarità con i bambini sa benissimo che essi imparano molto presto a dire Non è giusto! e ben più tardi a dire E’ giusto.: perché per dire quest’ultima cosa occorre – almeno implicitamente – una teoria della giustizia, mentre Non è giusto! è come un grido che viene – come si suol dire, forse un po’ troppo, al giorno d’oggi - dalla pancia. E che cos’è a essere ingiusto? E’ ingiusto che non trovi parcheggio, che mi interroghino quando non sono preparato, che lei/lui mi abbia lasciato e debba soffrire così, che mi sia ammalato, che debba morire – infine questo, soprattutto, che debba morire, che muoia il mio amore, che muoiano i miei cari, che si muoia! Ma perché gridiamo così? A causa di cosa, e a quale giudice, a quale corte ci appelliamo? Dove c’è scritto che debba trovare parcheggio, che lei debba volermi bene, che debba essere in salute? Chi stabilisce che io debba vivere? Perché non parlo nei termini di fortuna o sfortuna? Sembrerebbe più sensato. Invece ci indigniamo: ma perché? Ci indigniamo perfino davanti a un terremoto, a un’inondazione: quegli avvenimenti che gli assicuratori americani chiamano, molto significativamente, Acts of God (escludono, infatti, ogni responsabilità umana, e quindi vengono assicurati con grande difficoltà e con grandi costi). Ciò che distingue l’ingiustizia dalla sfortuna è che la prima si collega alla possibilità di individuare un responsabile (Shklar, J. N.. I volti dell’ingiustizia. Iniquità o cattiva sorte?, 2000) L’ingiustizia che avvertiamo rivela che – più o meno consapevolmente – qualcosa in noi sussurra, o piuttosto grida, urla, che non sarebbe dovuta andare così. C’è un’impossibilità almeno psicologica – ma forse anche antropologica – di accettare un mondo in cui le cose semplicemente accadono; “la stessa colpevolizzazione di se stessi è più tollerabile della resa di fronte a una vita così assurda” scrive la Shklar. L’ingiustizia è un dito puntato verso un presunto colpevole. Presunto. perché chi può essere colpevole di un terremoto, o del fatto che la mia innamorata non mi corrisponde? La febbrile ingegnosità umana fa di tutto per trovarlo (si cerca chi potrebbe avere le competenze tali da consentirgli di prevedere i terremoti per poter incolparlo; nel mondo sanitario e ospedaliero ormai nemmeno un centenario muore senza che i parenti sospettino errori o episodi di malasanità, con ricadute certamente non positive sulla medicina), ma rimane che in certi casi non vi è né può essere alcun colpevole. Eppure ciò che sentiamo è ingiustizia. Una famosa Maestra dello Zen americana, Charlotte Joko Beck, cercando di spiegare come sarebbe infinitamente più lieve e infinitamente meno dolorosa l’esistenza se considerassimo noi stessi e gli altri come privi di un Io, faceva questo esempio: se mentre andiamo in barca su un lago siamo urtati da un’altra imbarcazione, la nostra reazione è molto diversa se quest’ultima ha qualcuno a bordo oppure è vuota e alla deriva; se è vuota non incolpiamo nessuno, magari ci diciamo che avremmo dovuto prestare più attenzione e proviamo a ridurre al minimo i danni; ma se c’è qualcuno, sulla barca, lo incolpiamo, ci mettiamo a litigare con lui, ci arrabbiamo. Con il massimo rispetto per questa Maestra, il punto è che, anche quando la barca è chiaramente priva di timoniere, noi ce lo mettiamo lo stesso, abbiamo una necessità interiore di trovarlo. Non sopportiamo che il male capiti a caso. In questo senso sul sentimento di ingiustizia si fonda un argomento esigenziale a favore dell’esistenza di Dio: dato che c’è il male deve esserci un responsabile, un colpevole, e ultimamente questo colpevole non può essere che Dio: e questo Dio bisogna processarlo, condannarlo e farlo morire, magari in Croce.

            Nel vostro cammino di Avvento dedicato alle virtù principali umane, dette cardinali,avete già approfondito la prudenza e la fortezza. Siete quindi familiari con il concetto di virtù, che come sapete non riguarda un singolo atto, ma un’attitudine, una disposizione, un habitus. La virtù è una inclinazione stabile alla realizzazione di un certo valore: qualcosa che quindi diventa una dimensione fondamentale e costante del mio essere nel mondo. Alzarsi al mattino per andare un’ora a correre all’inizio è difficilissimo: suona la sveglia, fuori è tutto buio, magari è freddo, magari piove, e io devo lasciare il tepore da tana del letto, e cominciano i pensieri: ma poi cosa cambia se corro? starò davvero meglio? e se cominciassi domani, o magari dopo le feste? sì, dai: dopo le feste, anzi, anno nuovo vita nuova. Invece no, ecco, mi alzo, mi infilo la maglietta, i pantaloncini, mi allaccio le scarpe, esco e faccio la mia ora di corsa. Difficilissimo, eroico. Ma, piano-piano, diventa più facile, comincio a entrare nel ritmo di quella sveglia mattutina e di quella corsa, non mi fa più fatica, non mi sembra più di dover smuovere le montagne, anzi, posso arrivare a un certo punto in cui soffrirei a star fermo: sono diventato virtuoso. Certo, ho faticato e anche sofferto, ma adesso mi sento meglio, più in salute, più vigoroso, magari anche il mio umore è migliorato e non sono più depresso. Come dice Luigi Lombardi Vallauri: le virtù sono abitudini difficili che rendono la vita facile, i vizi sono abitudini facili che rendono la vita difficile.

            Ora, che tipo di virtù è la giustizia? “La giustizia è la volontà costante e perpetua di attribuire a ciascuno il suo diritto”: è la definizione di Ulpiano nel Digesto, siamo nel terzo secolo dopo Cristo. Suum cuique tribuere o più in breve – come comparve nel 1862, in funzione controrivoluzionaria, sulla testata dell’Osservatore Romano - Unicuique Suum. San Tommaso (Pieper J., La giustizia, 2000) riprende la definizione del grande giurista romano: “Giustizia è quell’atteggiamento (habitus) in virtù del quale un uomo di ferma e costante volontà attribuisce a ciascuno il proprio diritto” (IIa IIae 58, 1). Resta da capire che cosa è questo suum, perché – prima di poter parlare di giustizia – sembra necessario comprendere in che senso qualcosa possa spettare a qualcuno. San Tommaso dice che ciò può accadere in ragione di contratti, disposizioni di legge, etc., ma anche ex ipsa natura rei, per sua stessa natura. Compare sullo sfondo la complicata questione del diritto naturale.

            Un’altra considerazione forse già nota è che la giustizia è la virtù delle relazioni. Iustitia est ad alterum. “Ciò che distingue la giustizia dalle restanti virtù è la proprietà di regolare l’uomo in tutto quanto è in relazione con gli altri (…) mentre invece le altre virtù perfezionano l’uomo solo in ciò che gli spetta, considerato in se stesso” (IIa IIae 57, 1). Joseph Pieper, celebre commentatore di Tommaso, richiama al fatto che qui il concetto di altri deve essere inteso in senso forte. Qui altri vale quasi per estranei. In senso stretto non può essere esercitata la virtù della giustizia nei confronti di una persona che si ama. E’ invece dove non c’è l’amore che il riconoscimento dell’altro in quanto tale integra il comportamento giusto (in questo altro è inclusa naturalmente la comunità, il tutto sociale). Questo riconoscimento è dovuto. Quindi è chiamato alla giustizia chi è debitore. La condizione di debitore, essenziale per la giustizia, chiarisce come non sia possibile in senso stretto affermare che Dio è giusto, poiché non deve niente alle creature. Tommaso cita in proposito Anselmo che formula un vero e proprio koan dell’imperscrutabilità del volere divino: “Se Tu punisci il malvagio, fai cosa giusta; giacché egli se lo merita. Se tu risparmi il malvagio, fai cosa giusta; giacché così si addice alla Tua bontà” (Proslogion, 10).

            Non c’è evidentemente il tempo per esaminare nel dettaglio le forme della giustizia (commutativa tra persone singole; legale tra le persone singole e il tutto sociale; distributiva tra il tutto sociale e le persone singole). Concludiamo dicendo che la giustizia ha, rispetto alle altre virtù, una dimensione estrinseca più netta. La giustizia si realizza – e si valuta – a partire da azioni esteriori. Nella fortezza e nella temperanza è necessario indagare il cosiddetto foro interno, mentre si può giudicare la giustizia a partire dal comportamento esterno. Commenta Pieper: “Nessuno dal di fuori è in grado di dire quanto vino mi sia lecito bere senza venir meno alla temperanza, all’opposto tutti hanno la possibilità di constatare da un punto di vista ‘oggettivo’ quanto io debba all’oste”. Pur essendoci effettivamente, nell’ambito della giustizia, un certo sbilanciamento sul fatto rispetto all’intenzione, è però vero che Tommaso insiste che si debba non soltanto fare il giusto, ma occorra essere giusti. Il giusto non è solo chi agisce giustamente, ma chi compie la giustizia con gioia e senza alcuna esitazione  (IIa IIae 107, 4).

Vorrei adesso provare ad accostare a questa visione classica (anche se profonda), nitida, pulita, geometrica della giustizia il racconto di una circostanza che mi capita praticamente tutte le mattine e tutte le sere. Succede quasi sempre, prendendo la metropolitana di Milano, che prima o poi compaia davanti un mendicante che chiede del denaro: certamente è un altro, nel senso di Tommaso. Proviamo a immaginarci il vagone pieno di gente stanca dopo la giornata di lavoro, la maggior parte impegnata a compulsare gli smartphone, altri con le cuffiette; noi siamo seduti. Ecco che davanti a noi compare quest’uomo, con quel volto ambivalente che spesso hanno i mendicanti, che sembra che facciano finta anche quando sono autentici. La mano tesa: proviamo a immaginarcelo realisticamente. ‘Che scocciatura, speriamo che vada via’: e invece no, rimane fermo, in piedi. Cosa facciamo? A questo altro certamente non amato, non simpatico, cosa è dovuto? Gli siamo in debito? Sembrerebbe di no: tanto è vero che di lui si dice (o meglio: si diceva) che chiede la carità, intendendo che se caccio la mano in tasca, trovo una moneta e gliela do, non esercito la virtù della giustizia, semmai quella della carità, che sarà anche più nobile ma non mi obbliga. Non gli devo nulla, semmai posso essere buono con lui, o piuttosto ritengo che un euro sia un prezzo ragionevole per togliermelo di torno. Eppure dentro di noi sentiamo che qualcosa accade: si mette in moto la coscienza morale. Supponiamo che io abbia superato questa visione priva di senso – anche se coccolata per molti secoli dalla Chiesa stessa – e che abbia ben chiaro che verso il povero io ho non soltanto la possibilità della carità, ma soprattutto il dovere della giustizia, ebbene il problema rimane. Che cosa è giusto fare? Dargli un euro e dimenticarlo? Non dargli niente, perché con quella moneta alimenterei il racket, lo sfruttamento, l’idea che si possa vivere senza lavorare, non lo incentiverei a cambiare vita? Tutte buone ragioni. Oppure devo fare come quei benpensanti che magari si rivolgerebbero a lui e gli direbbero: ‘Non ti do niente, ti ubriacheresti, ti drogheresti. Però ti compro un panino’ (e lo farebbero, spendendo anche di più, perché un panino al bar della metro costa tre euro e cinquanta); ma susciterebbero la collera di Bernanos: ‘Un ventre de misérable a plus besoin d’illusions que de pain’ (Journal d’un curé de campagne). Ottime cose, e già penso di lasciar perdere. Ma il suo sguardo non mi lascia. Da una parte ci sono delle ragioni, buone e meno buone, dall’altra c’è quello sguardo e il suo interpellarmi, quel Tu: non è anche questa una ragione? Dove sta la giustizia? Il punto è che non lo so. Sono condannato a non saperlo. E finora non c’è stato un Papa che all’Angelus si sia affacciato al balcone e mi abbia detto come fare: che non lo sappia neppure lui? Papa Francesco, si dice – ed è vero-, mette al centro del suo magistero i poveri. Benissimo. Però ho parlato con persone buonissime che spendono la propria esistenza in organizzazioni come la Caritas che mi hanno raccontato come Papa Francesco abbia reso loro la vita molto difficile, perché quando viene qualcuno a chiedere e loro ritengono giusto, nella complessità di tutto ciò che questo significa, non dare (per i più diversi e buoni motivi) i poveri gridano loro dietro: Siete contro il Papa!

In realtà siamo dentro un dilemma tragico, lo dico in senso letterale riferendomi ai tragici greci. L’impasse che sentiamo è esattamente l’indicazione che ci troviamo nel campo della tragedia. I greci conoscevano parole, o piuttosto due forme per esprimere la giustizia: themis e dike (Bearzot C., La giustizia nella Grecia antica, 2008). Themis (che deriva dal verbo tithemi: porre in essere) è una dimensione (una divinità) statica, ha a che fare con ciò che è stabilito dall’alto, con le leggi della natura e dell’umanità, ma è evidente in essa la radice trascendente. Come dèa è arcaica, precede Zeus e ne diventa consorte, ed è madre di Dike (collegata con la radice *deik-, indicare), la quale invece è un po’ collocata in mezzo fra il mondo celeste e quello ctonio, tenebroso, delle Erinni. Come concetto, Dike è dinamico, indica il giusto fra gli uomini, ma un giusto in divenire, un giusto tutto da realizzare. Ricordate Antigone (narrata da Sofocle): figlia di Edipo, essa sceglie di trasgredire le leggi emanate dal nuovo re di Tebe Creonte e di dare ugualmente sepoltura al fratello Polinice: dov’è Dike? Di più: nella Medea di Euripide, dopo che lei ha ucciso i figli per vendicarsi del tradimento – commesso per ragioni di realpolitik – di Giasone, il coro si chiede se Dike non si sia manifestata anche in questa azione. Le cronache di questi giorni ci propongono ipotesi di infanticidio: penso a Ragusa, dove i magistrati ipotizzano che una madre abbia strangolato il proprio figlio di otto anni con una fascetta da elettricista; o a Sanremo, dove una mamma ha preso il bimbo di dieci mesi, alle due di notte si è tuffata in mare e ha nuotato con il piccolo nel marsupio, abbandonandolo al largo. Diritto e mezzi di comunicazione si sono dati da fare per semplificare e involgarire i fatti. I giudici hanno contestato l’aggravante della crudeltà: si può essere più assurdi? Ecco apparecchiata e pronta la supercattiva per noi giusti indaffarati in compere prenatalizie. Ma Euripide si chiederebbe come facciamo a sapere che anche in questi casi non si sia manifestata un’imperscrutabile giustizia, sì, in questi atti totalmente ripugnanti alla coscienza morale ordinaria.

            Forse siamo condannati a essere ingiusti. Questo fa paura ai filosofi, agli studiosi di morale, tanto è vero che spinto da questo orrore Platone gettò nel fuoco tutte le tragedie che aveva composto, così che noi adesso siamo privi delle tragedie di Platone. Ma non è tollerabile pensare che la giustizia possa manifestarsi nell’uccisione dei figli. I filosofi non possono sopportarlo: un po’ di più gli scrittori, i poeti.

            Dal 1998 mi occupo di Giustizia Riparativa, e l’esperienza fatta in questi anni, l’aver incontrato tante vittime e tanti rei, persone che avevano subito e commesso atti talora gravi e gravissimi, mi fa dire che le cose stanno nel modo intuito e meravigliosamente espresso dai tragici greci. Quando i giudici ci consegnano queste esistenze sembra tutto abbastanza chiaro, c’è un colpevole, c’è un offeso. Ma quando cominciano a parlarsi, ecco che molto si confonde, ed è difficile dire dove stia Dike, e forse sta un po’ qui e un po’ lì, o forse tutta qui e tutta lì, o forse non la si trova affatto. Meglio: Dike è un dito puntato verso qualcosa da realizzare, da compiere. Si spalancano, nel laico rito della mediazione, le voragini del riconoscimento incolmabile dovuto per giustizia, e non rimane che testimoniarlo. Non è un caso che la persona che ha messo a punto il modello di mediazione che pratichiamo – Jacqueline Morineau, che forse qualcuno di noi ha anche conosciuto, essendo stata di recente anche a Bergamo – sia un’archeologa e si sia ispirata precisamente alla tragedia greca con le sue scansioni interne.

            Siamo e saremo sempre ingiusti perché è vero che giustizia è rendere all’altro, all’estraneo, ciò che gli è dovuto. Ma gli devo tutto. Gli devo l’amore (Nancy J.-L., Il giusto e l’ingiusto, 2007), gli devo tutto, gli devo un riconoscimento infinito, e come tale il mio debito è inestinguibile. Come forse sapete attorno a Yad vaShem (il museo della Shoah a Gerusalemme) sono piantati tanti ulivi, e ciascuno è dedicato a un Giusto fra le Nazioni (Hasid umot haOlam). Chi sono questi Giusti? Sono coloro che hanno visto negli ebrei perseguitati dal nazifascismo persone verso le quali erano in debito. Consapevolmente o non consapevolmente ne erano certi. Dovevano a loro tutto, dovevano loro il riconoscimento infinito, e quindi anche la vita. Molti infatti sono stati uccisi per questo. Non sono però i Buoni fra le Genti, ma i Giusti (Hasidai). Rimane da sapere quale sia oggi il volto di questi nostri creditori. Il mendicante del metrò è uno di quei volti?

Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Mt 1, 28-21

Considerando il tempo che state e stiamo vivendo, vorrei concludere l’incontro di questa sera con una breve riflessione a proposito dell’attributo di Giusto conferito dall’evangelista Matteo a Giuseppe lo sposo di Maria all’inizio del suo racconto. Questo attributo, lo abbiamo sentito, è messo in connessione con uno specifico comportamento di Giuseppe nei confronti della sua sposa.

Vi invito ad andare a vedere il film Viviane, di Shlomi e Ronit Elkabetz. In Israele, per gli ebrei, il divorzio civile non esiste, e per ottenerlo si deve andare davanti a un tribunale rabbinico il quale, a fronte di buone ragioni, deve persuadere il marito a produrre il libello di ripudio. Tutto si fonda sui precetti della Torah (Dt 22, 13-14,20-21 – 24,1-4).

            Giuseppe viene chiamato dikaios, giusto, traduzione dell’ebraico tsaddiq. E’ interessante che il Vangelo porti a pensare che è proprio in virtù di questa sua giustizia che Giuseppe può andare oltre la Legge, rifiutando la possibilità di deigmatizzare (trasferire, denunciare, svergognare, disonorare, compromettere, ripudiare, esporre all’infamia) Maria. Anche qui Giuseppe non è chiamato buono, ma giusto. Giuseppe è un personaggio bellissimo. E’ bellissimo vedere come la sua integrità sia in grado di flettersi alle esigenze anche trasgressive del disegno di Dio. Nei primi anni del Novecento Paul Claudel pubblica un dramma intitolato Annuncio a Maria. Pietro di Craon, un costruttore di cattedrali lebbroso, è sedotto dalla bellezza incantata di Violaine Vercors, la figlia del Signore di Montsanvierge. Dopo aver cercato di farle violenza si allontana dal castello, ma prima lei lo bacia, lo bacia di tenerezza, di perdono: e baciandolo contrae la lebbra. Poi la stessa Violaine viene fidanzata dal padre al suo innamorato, Giacomo Hury, e c’è un dialogo d’amore bellissimo fra loro. Giacomo – potremmo dire noi – pensa a themis: “Io sono il futuro Signore di Montsanvierge, tuo padre ti ha dato a me, è nella logica che sia così, questo è giusto”. Ma Violaine, consapevole della sua malattia, ha a che fare con un diverso tipo di giustizia, più simile a quella dei tragici. Quando mostra a Giacomo i segni della lebbra, in nome della giustizia lui la scaccia (anche se alla fine lei avrà una glorificazione proprio nella cattedrale che verrà costruita in onore di santa Giustizia). Giuseppe no. Per quanto non capisca nulla, è chiaro che la sua giustizia lo chiama a un comportamento differente. E per questo si immerge in una riflessione che si aprirà al sogno e, nel sogno, alla rivelazione di Dio.


            Aristotele, proprio nel cuore della sua Etica a Nicomaco, ha una espressione bellissima: “Né la stella del vespro né la stella del mattino sono tanto degne di meraviglia quanto la giustizia”. Trovo straordinario paragonare la giustizia alla bellezza luminosa di una stella. Sia quindi la giustizia, che sta dentro e che va oltre le leggi e la Legge, a brillare quale stella nel presepe interiore di quest’anno.

Sotto: Cristo morto tra Carità E Giustizia - Lelio Orsi, XVI secolo


venerdì 24 ottobre 2014

Sull'invecchiare. A Lecco, il 24 ottobre 2014

Convegno
Progetto ANASTASIS. Prospettive di integrazione tra servizi e comunità
a sostegno della famiglia in un territorio che invecchia
Venerdì 24 ottobre 2014 – Lecco
Vivere in una comunità che invecchia: vissuti, bisogni, desideri
(Leonardo Lenzi)




Chiedere a un cinquantenne di parlare della vecchiaia è un po’ crudele, perché non può esprimersi né da dentro né da fuori. Forse è ancora come sulla soglia, ma ogni giorno che passa si ritrova sempre più dentro. Si accorge con stupore, con terrore, con dolore, del proprio ingrigirsi. Ogni mattina scopre nuove inconfondibili tracce di vecchiaia sul suo volto, nel suo corpo, nel suo cuore, perfino nel suo spirito. E così tanta è la paura che spesso capisce che deve cominciare a correre per non farsi raggiungere dalla morte, e se uno va al Monte Stella di Milano o negli anelli del Central Park a New York vede questi uomini, soprattutto uomini (ma anche donne), correre correre correre con dei volti spesso tristi, spesso molto tesi, e si dicono: Ho fatto la maratona in meno di quattro ore! Verso dove corrono, o – meglio – da che cosa fuggono? I giovani – fatta eccezione degli atleti più o meno professionisti – non corrono. Non hanno bisogno di fuggire. Se ne stanno acciambellati sul divano, come se non avessero ossa, magari mangiando Nutella. La mia è l’età in cui in mezzo alla giornata si pensa: Ecco, oggi mi sento bene! magari senza accorgersi di come sia terribile.

Scrive Jean Amery, lo scrittore austriaco sopravvissuto ad Auschwitz e poi morto suicida come Primo Levi:



Chi dice “mi sento bene”, non è già più del tutto a suo agio, come chi afferma di sentirsi giovane, non può essere veramente giovane. Chi si “sente”, bene o male che sia, non sta in maniera ottimale, perché fin quando è veramente in pieno possesso delle sue forze e vive nella certezza di una corporeità sana, non si “sente”. Non è in se stesso, bensì (…) è “là”: presso le cose e gli avvenimenti del mondo. (1)



In questo senso perdonatemi se parlerò con emozione, con trepidazione, perché non mi sto occupando di un oggetto ma di un’esperienza – forse la più tragica che gli esseri umani possano sperimentare – che sto per incontrare, che sto incontrando, e che mi fa paura.

Vorrei iniziare con una domanda, anzi, con due. La prima è: a che età, secondo voi, comincia la vecchiaia? La seconda: quanti, qui tra noi, si ritengono ‘vecchi’? Se provate a rispondere in modo separato alle due domande, forse potrete notare come le due risposte possono risultare contraddittorie. Uno può dire: la vecchiaia inizia a 65 anni (per esempio) ed è una risposta astratta, generale, poi però incontra la seconda questione, si accorge di avere 66 anni e pensa: io vecchio? no di sicuro!. Ci sono le statistiche che – con la freddezza austera dei numeri – specificano l’aspettativa media della vita. In Italia per gli uomini è 79.4, per le donne 84,5. Però se capita sfortunatamente di partecipare al funerale di un settantacinquenne, non raramente si sentono commenti tipo: è morto giovane, era ancora giovane. D’accordo, è morto quattro anni sotto la media nazionale, ma si può dire di un settantacinquenne che è morto giovane? E’ interessante, poi, osservare che la risposta alla prima domanda (quando inizia la vecchiaia?) varia a seconda dell’età di colui al quale è posta. Una recente ricerca inglese riporta che le persone sotto i 30 anni pensano che la vecchiaia inizi prima di 60 anni, gli adulti tra 30 e 49 anni che essa inizi a 69, quelli tra 50 e 64 che inizi a 72, da 65 in poi che inizi a 74. Ma la stessa ricerca indica che – qualunque sia l’età in cui lo si chieda – pochissimi percepiscono se stessi come vecchi.

Per quanto mi riguarda, io mi sentirò vecchio il giorno in cui un gentilissimo sciagurato ragazzo (o, peggio, una educata sciaguratissima ragazza) si alzerà a cedermi il posto sulla metropolitana del mattino. Non è ancora mai accaduto, potrebbe accadere domani. Ma so che quella metropolitana sarà un oracolo, una macchina del tempo, un salto quantico, un passaggio fra due stati, fra due condizioni, fra due esistenze, non solo che tra due stazioni.

E’ evidente che la vecchiaia è una categoria dai contorni molto fluidi, indistinti. Essere vecchio, sentirsi vecchio: tutti sappiamo che non è la stessa cosa. Poi vi sono vecchiaie e giovinezze settoriali, c’è chi è fisicamente “giovane”, nel senso che magari partecipa alla Resegup e va in montagna salendo con la scioltezza e la velocità di un camoscio, ma mentalmente è “vecchio”, oppure il contrario. Esistono vecchiaie e giovinezze artistiche, intellettuali, relazionali, mediche, politiche. Pensiamo a quando l’attuale Presidente del Consiglio ha utilizzato – per la sua campagna elettorale all’interno del Partito Democratico – la violentissima espressione rottamare, che tanta presa ha fatto sugli elettori. E non soltanto su di loro, dal momento che D’Alema (geniale, grintoso e gelido politico. a capo dei Servizi Segreti, possibile candidato alla Presidenza della Repubblica) si è abbastanza velocemente trasformato in un signore canuto, col cappotto, che porta a spasso il cane. E pensate a Berlusconi, 78 anni, che sconta la sua pena assistendo gli anziani a Cesano Boscone, immaginate l’incontro tra queste diverse vecchiaie. Stiamo parlando di vecchiaie che nulla hanno a che vedere con (e certamente non corrispondono a) i dati brutalmente anagrafici. Segnalo l’emergere – abbastanza pauroso – della vecchiaia tecnologica, per cui si può diventare vecchi anche a trent’anni, e forse perfino prima. Il mondo dei dispositivi elettronici (da alcuni non a caso chiamate ormai protesi, in quanto effettivamente uno smartphone si inserisce a pieno titolo nello schema corporeo, come gli occhiali) genera nuovi modelli di vecchiaia. Sopravviverò al prossimo aggiornamento del sistema operativo, riuscirò a dominare la prossima applicazione? Oppure la versione più recente sarà pensata da nativi digitali solo per altri nativi digitali, che hanno davvero la mente diversa, e io dirò: no, questa cosa non la capisco, a me va bene l’email, va bene il messaggino, ho addirittura Facebook, ora basta, ed ecco: sono vecchio, si apre il baratro tra me e loro, si spalanca una voragine che si allargherà ogni giorno, e alla fine non li vedrò più, e tutto il mondo dove accade il loro scambio mi sarà precluso, proprio come un vecchietto sordo che siede nel salotto con i nipoti che parlano e – poiché non sente nulla – continua a dire: eeeeeh? cheeeeee?

La premessa quindi è che la vecchiaia non è un territorio omogeneo, ma una parola contenitore che racchiude significati e allude a comportamenti molto differenti. Non c’è una vecchiaia, ma ci sono molte vecchiaie, così come molte giovinezze. E non ha confini netti, è come una nuvola. Ci si ritrova dentro. Non conosco il giorno in cui prenderò quella metropolitana, non conosco ancora il volto di quel giovane (giovane!) che, inconsapevolmente, avrà lo sguardo e le parole del dio terribile che mi dirà quella verità che non voglio sentire: a un certo punto accadrà ed ecco, sarò dentro. Perché io non le vorrei le carte d’argento, non li vorrei gli sconti riservati agli anziani, pagherei tutto, pagherei il doppio – se volete – purché mi venisse lasciata la carta verde.

Ciò premesso vorrei adesso affrontare, o meglio: avvicinare, con voi alcune questioni riguardanti l’invecchiare. La differenza tra problema e questione (ben sviluppata in molti suoi lavori dal filosofo ed amico Silvano Petrosino) è che il problema lo si può in qualche modo risolvere, anche se difficile o difficilissimo: occorrerebbero più soldi, più competenze, più risorse, più buongoverno, ma lo si può risolvere. La questione no: è il luogo dell’interrogazione inesauribile, della domanda senza fine, è un luogo in cui ci si inoltra senza sapere la strada, un sentiero che si imbocca senza mappe e senza sapere dove ci porterà. Entrare nelle questioni genera inquietudine, si rimane inquieti e in un certo modo irrisolti: ma vi sono inquietudini che sono preferibili a false sicurezze



1.         Il mito di Aurora e Titone



Una prima questione che credo debba essere avvicinata riguarda la differenza tra vecchiaia e mortalità. La mitologia classica – che, come molte antiche narrazioni dell’umano e del divino, aveva compreso già tutto o quasi tutto – racconta di Eos, l’Aurora, la dèa meravigliosa dell’inizio rosato del giorno, si innamora, si infatua, si incapriccia di un mortale, Titone, fratello di Priamo e eroe troiano. Chiede al padre Zeus di concedere al suo amato l’immortalità, e Zeus la concede, avvertendola però che non le avrebbe concesso altro. Trascorrono anni d’amore, fino alla terribile scoperta: Titone invecchia. Eos ha chiesto e ottenuto da Zeus l’immortalità, ma ha dimenticato di chiedere per Titone l’eterna giovinezza. Così Titone diventa decrepito, e Eos non può più amarlo e non può più neppure vederlo: lo rinchiude in una grotta, dove lui grida e grida, invoca la morte, il dono che non potrà più avere. [Louis-Jean-François Lagrenée dit l’ainé]. Versioni più tarde e più miti narrano che Eos riesce a trasformarlo in cicala, proprio l’animale del canto effimero.

Nelle società tradizionali (non mi riferisco soltanto a quelle primitive, anche a quelle molto più prossime, fino a poche decine di anni fa), la vecchiaia era effettivamente il preludio alla morte, forse anche la sua preparazione. Sono recentemente tornato da un viaggio sul Monte Athos, uno dei luoghi statisticamente più longevi del pianeta. La vita è dura e scomoda, prevalentemente notturna e orante, non esiste neppure l’idea di barriera architettonica nei monasteri dalle mille ripide scale senza corrimano a precipizio sul mare. I monaci si lavano pochissimo, convinti come sono che chi conduca un’esistenza spirituale trasformi la sua materia in qualcosa già di semidivinizzato. Insomma, l’asceta, il santo, non puzza, essendo quasi soltanto anima. Sarà, ma l’igiene lascia a desiderare. Tuttavia vi sono vegliardi meravigliosi, alcuni circondati da una luce percepibile anche dai sensi. Quando si ammalano, normalmente non vanno in ospedale. A un certo punto non li vedono alle liturgie, si va a verificare nella loro cella nel bosco, e li si trova morti. Si avvolgono nell’abito monastico e li si seppellisce nella terra o in un sepolcreto. A volte ci si accorge di una morte dopo anni, trovando le ossa di un anacoreta già bianche e spolpate in una grotta. Nessun problema, si raccolgono e si dà loro sepoltura.

Nell’attuale occidente però le cose sono ben diverse, e tutti noi siamo destinati a diventare più o meno come Titone. La scienza ha già allargato incredibilmente la forchetta temporale che separa vecchiaia e morte. Potrebbe – in un tempo non lontano – separarle indefinitamente: anche senza arrivare alle nuove visioni di immortalità trans-umana (le ibernazioni, il riversamento della coscienza su supporto digitale, etc), si può pensare a una quasi-immortalità fatta di flebo, sondini naso gastrici e ventilatori respiratori. I reparti geriatrici diventerebbero delle immense grotte per altrettanti Titoni, proteggendo il resto dell’umanità dai loro gridi, anche muti. Forse saremo fra gli ultimi esseri umani a vedere ancora morti di vecchiaia (come si dice a Firenze). Sempre più le persone scivoleranno in una condizione di non-più-vita-non-ancora-morte e a decidere il momento dell’exitus saranno altri. Non l’angelo della morte, che viene come un ladro ad ora incerta, no: un decisore, una comunità di decisori, un comitato di esperti. Familiari, medici, giuristi, bioeticisti, trapiantologi, psicologi, assistenti sociali. Oppure un documento scritto da me, ma che comunque dovrà essere interpretato da altri. E’ quindi necessario – evidentemente – riflettere sui criteri che verranno considerati per decidere la mia morte, affrontando con coraggio e senza pregiudizi i problemi relativi alle dichiarazioni anticipate di trattamento, alla definizione di morte, etc. Chiedendosi cosa è bene tradurre in norma e cosa invece è meglio lasciare non regolato da leggi. Personalmente vorrei che i cosiddetti laici diventassero più materialisti, rendendosi conto del valore e dello splendore della materia anche quando è lesa, ferita, dolente; e che i cosiddetti cristiani diventassero più spirituali, difendendo la vita intera: non solo quindi la vita biologica, ma anche quella futura, quella eterna. Mi piacerebbe vedere i laici inchinarsi davanti all’essere, alla vita, e i cristiani predicare il paradiso, anziché vedere spesso i primi anelare al nulla e i secondi aggrapparsi alle increspature di strumenti che registrano la minima attività elettrica del cervello. Beninteso: so bene che si tratta di territori delicatissimi, minati, pericolosi. In gioco ci sono la vita e la morte.

2.         Il ritratto di Dorian Gray




Dorian Gray è l’opposto di Titone. Lui non invecchia, un altro, un’immagine, invecchia al posto suo. Ma muore.

Quanti anni hai? Mi chiede un’amica. Esito, poi dico: Quanti me ne dai? E lei: Non so: cinquanta, cinquantacinque. Io sbianco, mi sento svenire, la mia giornata è irrimediabilmente rovinata. E questo perché ho scoperto di dimostrare la mia età. La mia vera età. Quanti anni mi dai? è una domanda che si augura una risposta sbagliata (per difetto). Quaranta, quarantacinque avrebbe dovuto dire, ed ecco che sarei stato bene.

Ognuno di noi – chi più chi meno – combatte una battaglia contro il tempo, a colpi di yoga, corsa, palestra, pilates, botulino, zumba, tintura per capelli, diete macrobiotiche, ginseng, e chi più ne ha più ne metta. Dimostrare la propria età significa essere perduti. Così ci affanniamo, mentre il corpo, testardamente, testimonia contro di noi.

A questo proposito vorrei dire che le belle parole servono a poco. Ho fatto una ricerca di qualche titolo di libro di self help sull’invecchiamento:
- The Wonder of Aging: A New Approach to Embracing Life after Fifties
- Conscious Living, Conscious Aging: Embrace and Savor Your Next Chapter
- How to Survive Menopause: Everything You Need to Know to Embrace the Change of Life
- Still here: Embracing Aging, Changing and Dying
- Aging: Embrace it!
- Growing Old And Getting Older: How To Embrace The Troubles And Joys Of Your Senior Years

Certo, abbracciare l’invecchiamento, non opporre patetiche e inutili resistenze, accogliere con saggezza, stile, eleganza l’invecchiamento sarebbe fantastico. Il condannato a morte lo si vuole dignitoso e fiero mentre si avvicina al patibolo, ed è d’obbligo non accettare il cappuccio o la benda. Un momento, un solo altro momento, altrimenti mi difendo, mordo! grida il condannato di Victor Hugo: è così che vanno le cose per davvero. La debolezza, le malattie (dalle quali si guarisce, ma anche no, perché nella vecchiaia ogni malattia lascia un segno e segna un passo avanti irrevocabile, anche quando si guarisce), la mente che si sbanda, tutto questo lascia poco spazio alle parole auto consolatorie.



Del resto il poeta gallese Dylan Thomas lo cantava (e intendo questo in senso letterale, perché si tratta di una villanella ossia di un componimento che esige il canto):


Do not go gentle into that good night,
Old age should burn and rave at close of day;
Rage, rage against the dying of the light.

Non andare docile in quella notte benevola
La vecchiaia dovrebbe bruciare fervida al cadere del giorno
infuriati, infuriati contro il morire della luce

Non è possibile entrare nel nulla senza gridare contro la luce che si spegne. Sarebbe meglio incontrare la verità piuttosto che illudersi con vecchiaie sorridenti e a tinte pastello. Scrive ancora Amery, alla fine del suo denso e dolorosissimo libro sull’invecchiare:


A è riuscito a turbare l’equilibrio, a svelare il compromesso, a distruggere il quadro di genere, a scacciare la consolazione? Lo spera. I giorni si assottigliano e si prosciugano ed egli ha sentito il desiderio di dire la verità. (2)

 Nel video che vedrete durante questo Convegno vi è certamente tanta allegria, ma è l’allegria di un naufragio. I caregiver stanno attorno a vecchi re e regine che stanno andando in esilio dal mondo (come direbbe Arno Geiger ne Il vecchio re nel suo esilio, la narrazione del rapporto con il padre malato di Alzheimer), sono attorno a delle grandi, vecchie navi che si allontanano sempre più – e irreversibilmente – dalla costa, vecchie navi che naufragano, che vanno in pezzi: infatti il video è pieno di oggetti, di pezzi, di ingranaggi, oggetti struggenti, memorie materiali, ma tutto sfugge, e gli oggetti rimangono lì nel loro struggimento. Nella brochure cartacea la sedia è raffigurata vuota, pur con tutti gli oggetti intorno. Il naufragio è avvenuto, la nave è ormai così lontana da non lanciare più alcun messaggio, rimangono gli ostinati oggetti con il loro durare.


Però è vero: la vecchiaia deve bruciare fervida al cadere del giorno. E’ come se avessimo perso la sapienza del tramontare. Il punto è che non è possibile tramontare senza che qualcos’altro – qualcun altro – sorga. Nel Vangelo, il vecchio Simeone può congedarsi dalla vita, può tramontare, solo nel momento in cui vede lo spuntare di una nuova luce. Se la vita non è generativa (sul concetto di generatività rimando ai numerosi lavori di Mauro Magatti e soprattutto Chiara Giaccardi) non può neppure tramontare. Senza ‘figli’ (e dico ‘figli’ in ogni senso) si è condannati a far luce, non possiamo lasciarci bruciare fervidi al cadere del giorno

Non vanno scartate inoltre vecchiaie creative, vecchiaie alternative. La vecchiaia è caratterizzata dal restringersi delle possibilità. Ancora Amery (pp. 83-84). E’ inevitabile?



Scrive lo scrittore, anch’esso austriaco, Stefan Zweig:

Così gli anni scorrevano, lavorando e viaggiando, imparando, leggendo, collezionando e gustando. Una mattina del 1931 mi sono svegliato: avevo cinquant’anni (…). E’ così che nel giorno del mio cinquantesimo compleanno dal più profondo del cuore ho espresso un solo desiderio temerario: che succedesse qualcosa che mi strappasse a queste sicurezze e agli agi, che mi obbligasse non solamente a continuare bensì a ricominciare (…). Era solo un pensiero fuggevole che mi sfiorava come un soffio, forse non essendo affatto un pensiero davvero mio, ma di un altro, scaturito da profondità a me sconosciute (3)


Nell’India tradizionale vigeva la regola delle varie fasi (ashrama)  della vita. Fino a 24 anni vita casta, obbediente, disciplinata, ai piedi del proprio Maestro. Da 24 a 48 si mette su famiglia, si fanno figli, si partecipa alla vita del mondo, si educano i figli e li si sistemano, si restituisce alla società quel che ci ha dato. Da 48 a 72 ci si ritira gradualmente dal mondo, e dopo si lascia ogni cosa per diventare un asceta errante, senza casa né famiglia, alla sola ricerca dell’illuminazione. E’ chiaro che in alcun modo lo stile dell’India tradizionale è riproducibile nell’Italia di oggi: ma credo che potrebbero ugualmente essere immaginate esistenze che includono una vecchiaia creativa, generativa. Per utilizzare una metafora informatica, sovrascrivere l’hard disk della propria esistenza, ricominciare e non soltanto continuare, prigionieri di quella maschera sociale che ti sei costruito e adesso ti soffoca, può essere forse possibile: a condizione di saper morire e rinascere, perché ciascuno di questi passaggi non è meno di una morte.

3.         Proust e la madeleine

Conclusivamente, vorrei provare a spendere qualche parola sulla cosiddetta demenza, dal momento che il Progetto Anastasis è costruito per offrire cura a persone affette da questa malattia che – come ogni malattia, del resto – è in parte costruzione sociale e in parte un dato organico. D’altra parte io di Alzheimer non so niente, se non quello che tutti sanno, se non per aver letto qualche libro e ascoltato qualche testimonianza.

Come ho già detto, vedo queste persone come navi che sono così tanto al largo da non poter più comunicare se non qualche minimo messaggio che – chissà come – supera l’incolmabile distanza e ci rivela che in realtà quella che noi chiamiamo assenza è un tempo vissuto, ma di quel vissuto noi non abbiamo i codici, non sappiamo decifrarlo: per cui chiamarlo assenza è una semplificazione. Contemporaneamente essi sono simboli efficacissimi del mondo, precisamente del nostro mondo, che – come questi uomini e queste donne – nell’arco di poche decine di anni ha smarrito la memoria di ciò che ha costituito i suoi riferimenti, e ora è attonito e spaventato, non sentendosi più a casa neppure nel suo letto, e avvertendo qualunque cosa come potenzialmente minacciosa.

Naturalmente io non ho, non dico ricette, ma neppure delle vere e proprie opinioni. Visto però che abbiamo proceduto finora per riferimenti letterari, consentitemene brevemente ancora uno, molto famoso. Si tratta del momento in cui l’Io narrante della Recherche assaggia il dolce inzuppato nel tè.

Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati maddalene, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della maddalena. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicessitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita…non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta ? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della maddalena. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva ? Che senso aveva ? Dove fermarla ? Bevo una seconda sorsata, non ci trovo più nulla della prima, una terza che mi porta ancor meno della seconda. E tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. E’ stata lei a risvegliarla, ma non la conosce, e non può far altro che ripetere indefinitivamente, con la forza sempre crescente, quella medesima testimonianza che non so interpretare e che vorrei almeno essere in grado di richiederle e ritrovare intatta, a mia disposizione ( e proprio ora ), per uno schiarimento decisivo. Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità…retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza alcuna nuova chiarezza. Chiedo al mio spirito uno sforzo di più…ma mi accorgo della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze prima di un supremo tentativo. Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi…All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio….


Io immagino – forse soltanto sogno – che alle persone con demenza possano essere offerti momenti proustiani. Essi in primo luogo passano dai sensi puri, dal gusto, dal sapore di un biscotto inzuppato nel tè. Ma la sensazione innesca un percorso di liberazione del ricordo dalla prigionia del tempo, un percorso difficile, non immediato, ma possibile. Non so – e lo chiedo a chi parlerà da adesso in poi – se è realistico per un prestatore di cura, un familiare, un operatore o un’operatrice, propiziare al malato di Alzheimer esperienze proustiane e ritrovarsi con lui in una misteriosa Combray, in parte ricordata, in parte trasognata.

Grazie.


(1) Amery J (1998), Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare, Torino: Bollati Boringhieri, p. 56.
(2) Amery J (1988) p. 149
(3) Zweig S (2000), Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Milano: Mondadori

Sfondo Bibliografico

Amery J (1998), Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare, Torino: Bollati Boringhieri
Augè M (2014), Il tempo è senza età. La vecchiaia non esiste, Milano: Cortina
Geiger A (2012), Il vecchio re nel suo esilio, Milano: Bompiani
Zweig S (2000), Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Milano: Mondadori